Animal Kingdom è come un pugno nello stomaco quando meno te lo aspetti. Uscendo dalla sala, dopo l’anteprima, è così che mi sono sentita: come se mi avessero preso a pugni mentre ero tra gli scaffali del supermercato a comprare biscotti.
La violenza scivola tra i giardini e le strade di una periferia che sembra la squallida anticamera di Melbourne, una città ricca di giardini lussureggianti e architettura vittoriana, piena di tram, di caos e di vita. Non c’è vanità in questi criminali che non indossano abiti firmati, non sfoggiano macchine di lusso e non vivono in palazzi signorili. Sono persone ordinarie, che fanno la spesa al supermercato e vivono in case di periferia dotate di ogni elettrodomestico, unico indizio delle ricchezze accumulate con rapine e spaccio di droga, delle tane nelle quali trovano rifugio, qualunque cosa accada. Persone sciatte e prive di gusto che passano inosservate, fino a quando non trasformano l’arroganza e l’ignoranza in violenza senza mezzi termini e, spesso, senza via di scampo. Sia che si tratti di accendersi una sigaretta in un bar, infischiandosene dei divieti e dei richiami della cameriera, sia che si tratti di minacciare con la pistola un automobilista arrogante. Man mano che il film si sviluppa, anche il più semplice gesto di uno dei membri della famiglia Cody ci fa stare in tensione, in attesa del peggio.
L’idea è geniale: girare un film all’interno di un negozio Ikea senza chiedere permessi. Un uomo, una donna e i loro due figli vivono e utilizzano soggiorno, cucina, bagno e camere da letto tra passanti e commessi che non si accorgono di niente!
Tutto male andando IKEA resta sempre un punto di riferimento…
P.s. L’avevo già segnalato su Twitter, ma avevo promesso di postarlo per chi l’avesse perso!
Sono 15 anni che vanno in onda su Radio 2, tutti i giorni dalle 8.00 alle 10.00 del mattino, dei veri highlander. Li ascolto da 10 anni, ma in realtà li sentivo anche prima grazie a mia madre, lamentandomi perché volevo ascoltare solo musica e non mi piaceva la Radio parlata. Sono le uniche due persone capaci di farmi ridere anche il lunedì mattina più nero, l’unica trasmissione che in momenti di depressione profonda mi ha dato lo spunto per resistere a condizioni lavorative decisamente terrificanti.
Si rinnovano sempre grazie a ospiti fissi come l’attore Giancarlo Ratti (imperdibile “è arrivato l’attorino” di quest’anno!) o maga Paiella e mago Roland (Max Paiella e Attilio di Giovanni), e a rubriche imperdibili come i musical della compagnia della Rancida. Insomma, una trasmissione in cui le (orribili) notizie quotidiane vengono commentate con ironia e sarcasmo, in cui non viene posteggiata la realtà in luogi comuni e si riesce a spostare il proprio punto di vista mantenendo i piedi per terra. Loro sono Marco Presta e Antonello Dose, la trasmissione è Il ruggito del coniglio e se in Italia si adottasse il buon senso che regna nell’Onu Coniglia (un’Onu in miniatura, con 5/6 stranieri che vivono in Italia e sono chiamati dai conduttori a decidere come comportarsi in situazioni di tutti i giorni, seguendo gli usi e i costumi delle proprie culture), certe scelte sarebbero certamente più eque e responsabili.
Ogni volta che mi viene in mente un argomento su cui scrivere, succede qualcosa che me ne fa intravedere immediatamente l’inutilità. A volte, è come se nulla avesse un senso, anche se ho tanti interessi che danno significato alla mia vita e mille motivi che rendono ancora valide le mie scelte.
Come disse un tale* in un’intervista, “molti preferiscono realizzare la propria identità, piuttosto che cercare la felicità. La felicità è un concetto vago”. Credo di essere tra quei molti, ma ho ancora parecchi No da dire e molti rifiuti da fare. Non è facile, ma so che quando si riesce a realizzare una piccola porzione d’identità ci si sente liberi e concretamente felici. Una sensazione tutt’altro che vaga e inutile.
Stamattina mi sono svegliata con la sensazione di aver perso qualcosa. Non un oggetto, ma una cosa importante, una perdita irreparabile. Sicuramente avrò fatto un brutto sogno, ma ultimamente è una sensazione ricorrente, lo capisco solo ora. Si manifesta con malinconia, intolleranza, stanchezza e dolori sparsi, ma è un unico lutto che non riesco a elaborare. Forse, però, non voglio metabolizzarlo. Voglio sentirlo fino in fondo e scoprire dove mi porterà. Non so neanche se sto percorrendo la strada giusta. Ancora una volta, vista dal di fuori, devo sembrare un’irrisolta, un’incontentabile, per alcuni una persona capricciosa che non sa apprezzare quello che ha. Io, invece, mi sono sempre sentita un’artista nel profondo e so che periodi e sensazioni come queste portano sempre alla creazione di qualcosa di nuovo. Forse, sto semplicemente cambiando pelle per l’ennesima volta, separandomi da un’immagine che ha fatto il suo tempo, per rinascere ancora una volta.
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