Animal Kingdom
Animal Kingdom è come un pugno nello stomaco quando meno te lo aspetti. Uscendo dalla sala, dopo l’anteprima, è così che mi sono sentita: come se mi avessero preso a pugni mentre ero tra gli scaffali del supermercato a comprare biscotti.
La violenza scivola tra i giardini e le strade di una periferia che sembra la squallida anticamera di Melbourne, una città ricca di giardini lussureggianti e architettura vittoriana, piena di tram, di caos e di vita. Non c’è vanità in questi criminali che non indossano abiti firmati, non sfoggiano macchine di lusso e non vivono in palazzi signorili. Sono persone ordinarie, che fanno la spesa al supermercato e vivono in case di periferia dotate di ogni elettrodomestico, unico indizio delle ricchezze accumulate con rapine e spaccio di droga, delle tane nelle quali trovano rifugio, qualunque cosa accada. Persone sciatte e prive di gusto che passano inosservate, fino a quando non trasformano l’arroganza e l’ignoranza in violenza senza mezzi termini e, spesso, senza via di scampo. Sia che si tratti di accendersi una sigaretta in un bar, infischiandosene dei divieti e dei richiami della cameriera, sia che si tratti di minacciare con la pistola un automobilista arrogante. Man mano che il film si sviluppa, anche il più semplice gesto di uno dei membri della famiglia Cody ci fa stare in tensione, in attesa del peggio.
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