La frase è di David Grossman, scrittore israeliano di cui ho amato particolarmente Che tu sia per me il coltello, romanzo epistolare regalatomi dal caro Claudi-Norma.
Vi consiglio di vedere questa bella intervista rilasciata a Che tempo che fa.
Il suo ultimo libro è A un cerbiatto somiglia il mio amore e sarà il mio prossimo acquisto insieme a Uomo nel buio di Paul Auster, tra i miei scrittori preferiti, anche lui intervistato da Fabio Fazio ieri sera, nell’edizione domenicale del programma.
Paul Auster, che amo moltissimo e non avevo mai visto, ha dedicato il suo ultimo romanzo proprio a Grossman, suo caro amico, e vi confesso che sentirlo parlare, così come ascoltare le bellissime parole di Grossman, non solo mi ha fatto venire voglia di acquistarne il libro (ciò mi accade comunque ogni volta che metto piede in libreria), ma mi ha confermato una volta di più che:
1. esistono persone davvero geniali, la maggior parte delle quali non frequenta assiduamente la Tv
2. queste sono le cose belle e interessanti che vale la pena vedere in televisione
3. insieme a Parla con me, Che tempo che fa è una delle poche trasmissioni per cui ancora guardo la Rai
4. è vero, come dice Grossman, ‘scrivere avvicina all’indicibile, all’impronunciabile’ perché non è facile trovare le parole per raccontare certe storie e certe realtà e c’è chi lo sa fare davvero bene.
Ritrovo tra le mie scartoffie frasi di scrittori che amo, oppure incontrati per caso, che ho annotato perchè, in qualche modo, il loro pensiero mi corrispondeva. Le riporto qui per non dimenticarle e per condividerle con chi vorrà.
…Non ho bisogno di aspettare l’ispirazione. Mi assale tutte le mattine. Proprio prima dell’alba, quando preferirei dormire, questa cosa maledetta inizia a parlarmi nelle orecchie, è il mio Teatro delle Voci Mattutine. Sì. Sì, lo so, suona terribilmente artistoide.
…Le voci esistono perché io le accumulo lì ogni giorno da una vita, leggendo, scrivendo e vivendo.
In altre parole, non accolgo ogni giorno con un grido di felicità, bensì sono spinto fuori dal letto da questi brontoloni, mi trascino alla macchina per scrivere e ben presto, quando l’idea/fantasia/concetto lascia le mie orecchie, scorre lungo il gomito e mi esce dalle dita, mi ritrovo sveglio e vitale. Due ore più tardi, è pronto il nuovo racconto che, per tutta la notte, se ne era stato nascosto, mezzo addormentato, dietro il mio midollo allungato. Non oserei mai oppormi a queste voci mattutine. Se lo facessi, scorrazzerebbero per la mia coscienza tutto il giorno.
Da Make Haste to Live: an Afterword 1996, di Ray Bradbury, nella raccolta I fiori di Marte
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Mi è capitato di rivedere dopo tanto tempo un film che all’epoca della sua uscita, il 1987, mi era piaciuto moltissimo anche se non lo avevo confessato apertamente, perché troppo sentimentale e poco consono alla mia fama di “rockettara”! Si tratta di Dirty Dancing, la commedia musicale che ha reso famoso Patrick Swayze, in seguito protagonista di Ghost e dell’indimenticabile Point Break.
Ricordo di essermi immedesimata parecchio nel personaggio di Baby (Jennifer Gray), sedicenne colta e secchiona, poco incline alle relazioni sociali e perennemente annoiata dalla mediocrità dei suoi coetanei. Succede che la suddetta ragazzina, in vacanza con i genitori presso un villaggio turistico, resti affascinata dall’insegnante di ballo, un tipo “coatto” e muscoloso che niente aveva a che fare col suo predecessore più famoso John Travolta, altrettanto “coatto” per gli anni ’70. Ricordo di aver trascinato al cinema il mio fidanzato di allora che generalmente, forse per amore o per apatia, tendeva ad assecondare le mie scelte. Il film mi piacque talmente tanto che non appena passò in televisione lo registrai per rivederlo la sera di nascosto, quando tutti se ne andavano a letto, e per provare davanti alla Tv i passi di ballo (nonostante la mia ben nota idiosincrasia per i balli latino-americani!) che Baby imparava da Johnny, Patrick Swayze, appunto. Prosegui la lettura…
Avrebbe compiuto 29 anni il prossimo 4 aprile, anche se non sembrava poi così giovane. Nonostante quel suo bellissimo viso dai tratti non convenzionali, con occhi stretti e allungati e bocca grande e carnosa, Heath riusciva a incarnare la profondità d’espressione di chi la vita l’ha vissuta intensamente. Come quel suo Ennis Del Mar, ruolo che gli è valso una nomination agli Oscar, attraverso il quale ha raccontato con grandi silenzi e sguardi intensi la rassegnazione di chi per tutta la vita ha cercato di reprimere una natura mai accettata e mal vissuta. Una natura così diversa dalla sua immagine pubblica, sempre solare e giocosa.
All’ultimo Festival del Cinema di Venezia, in barba a fan e giornalisti pronti a scattare foto a uno degli uomini più sexy del cinema, si è presentato con calzoni corti, calze a righe rosse e cappellaccio a ritirare la Coppa Volpi per Cate Blanchett miglior interprete femminile per I’m not There, film nel quale Heath interpreta Robbie Clark. Un talento, quello di Heath, che non è mai passato inosservato e, sin dall’inizio della sua carriera, non è mai stato offuscato da quella fisicità così prorompente da rischiare di farlo entrare tra le fila dei belli e insignificanti. Prosegui la lettura…
Quentin Tarantino ha attaccato i produttori dei film di Bond, colpevoli di essersi appropriati della sua idea per il remake di Casino Royale (1967) senza riconoscergli alcun merito. Il regista di Pulp Fiction aveva proposto Pierce Brosnan nei panni di 007 per la nuova edizione del film, ma gli era stato risposto che si trattava di un’idea irrealizzabile. In seguito, i produttori di Bond hanno sostituito Brosnan con Daniel Craig e hanno fatto dirigere Casino Royale (2006) a Martin Campbell. Tarantino, a questo punto, si è risentito perché nessuno della produzione ha riconosciuto che la prima idea di un remake di Casino Royale era stata proposta da lui: il regista ha detto che quando Harvey Weinstein, il produttore della Miramax, suggerì il suo nome per dirigere il remake, i produttori rifiutarono con l’idea che il regista avrebbe potuto fare un film troppo bello. Sembra che avessero paura che il film sarebbe riuscito talmente perfetto da sminuire tutti i precedenti capitoli della serie… Incredibile che la produzione non abbia pensato a quanti fan in più avrebbe guadagnato l’agente segreto di Sua Maestà tra i Tarantino-maniaci. Peccato, perché come si suol dire ogni lasciata è persa.
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