Chiudo l’anno così, su questo blog da cui manco da un po’.
Chiudo con un tweet, perché su twitter ho vissuto più che qui.
Chiudo con una tavola in ricordo di Sergio Bonelli, scomparso quest’anno, che tanto ho amato e seguito nella mia vita, fortunatamente ricca di fumetti.
Chiudo con un tweet di @TitoFaraci, scovato tra gli amici di Twitter, seguito nelle storie dei miei eroi di carta preferiti, riscoperto nel suo ultimo romanzo.
Chiudo con l’immagine di un uomo che viaggia, perché questo è ciò che ho fatto e faccio nella vita: viaggio senza fermarmi mai, anche quando sono seduta a una scrivania.
Guardo e riguardo i volti e le espressioni di chi ha saputo invecchiare con naturalezza. Li contrappongo alle immagini e alle facce che popolano i quotidiani, i rotocalchi e la Tv, ma non capisco davvero come sia stato possibile che la plastica abbia preso il sopravvento sulla carne, sulle pieghe naturali della pelle e sui sorrisi autentici.
Guardo queste persone che, in musica o al cinema, ci hanno restituito sfumature e profondità, rappresentando anche i lati oscuri della maturità dell’uomo. Penso che andando avanti, demolendo estetica e filosofie obsolete per crearne altre più evolute e adattabili a nuove mode e tecnologie, abbiamo perso il senso della misura.
E con la misura abbiamo lasciato indietro alcune regole di base dell’educazione e del rispetto, anche quello verso noi stessi. Il trucco, nato per migliorare e sottolineare la femminilità, oggi copre tratti del volto alterati, trasformandoli in maschere dell’orrore. Come si fa a deturparsi così? Come è possibile non cogliere la differenza tra una bella bocca naturale e delle labbra gonfie e sformate scelte da un catalogo insieme ad altre centinaia di donne? Non è solo moda, non è un trend passeggero.
E’ un vuoto progressivo d’identità che, a partire dagli individui, rispecchia assenze più grandi. E non è un caso che questa tendenza appartenga a un periodo di profonda crisi che scopre un vuoto legislativo di troppi anni e l’assenza totale di strutture governative in grado di condurre una democrazia. E non è un caso che, in periodi come questi si temano apocalissi e fine del mondo. Poi arrivano i disastri naturali, i tifoni, le alluvioni e i terremoti e ci ricordano ciò che abbiamo dimenticato. O almeno spero che se ne conservi ancora qualche memoria, altrimenti l’apocalisse è già iniziata.
Morire ad agosto in città non fa notizia. Tutti quelli che restano in città ad agosto muoiono un po’. Diverso è se ci trova al mare o in montagna, lì l’evento farebbe scalpore – poveretto, neanche la vacanza si è potuto godere – animerebbe le serate al posto del teatrino da villaggio vacanze o dell’impepata di cozze. No, all’impepata di cozze non ci rinuncerebbero neanche in caso di morte, a meno che non si trattasse di parente stretto e, comunque, al massimo per due giorni.
Ho visto un carro funebre sulla tangenziale stamattina. Pensavo allo sgomento dei parenti rimasti in città, provati dal caldo e dal dolore; oppure dal fastidio perché costretti a rientrare dalle ferie o, peggio, a rinunciarci; o ancora dal senso di liberazione per sé e per il caro estinto, magari afflitti entrambi da lunga e inutile degenza.
Siamo strani noi occidentali, ma la stranezza la sappiamo nascondere bene, eccetto in caso di morte. Non riusciamo proprio a rapportarci con la separazione definitiva, con il ‘per sempre’ che non sia un sì davanti a un altare.
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Nella penombra ritrovo i contorni perfetti,
da sempre. Oggi più che mai.
C’è chi ha bisogno di luce per vedere,
ma io sono cieca e cerco occhiali scuri per guardare.
Colori netti sotto il sole riacquistano spessore al tramonto,
quando le ombre prendono il sopravvento e il latente diventa visibile.
Mi guardo allo specchio, nella penombra
e scopro quell’immagine interna di me
cercata per anni, persa nella luce dei vent’anni
smarrita nel buio di una nascita annullata.
Vedo nella notte,
ma devo vivere di giorno
costretta a guardare anche ciò che non vorrei.
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