Morire ad agosto
Morire ad agosto in città non fa notizia. Tutti quelli che restano in città ad agosto muoiono un po’. Diverso è se ci trova al mare o in montagna, lì l’evento farebbe scalpore – poveretto, neanche la vacanza si è potuto godere – animerebbe le serate al posto del teatrino da villaggio vacanze o dell’impepata di cozze. No, all’impepata di cozze non ci rinuncerebbero neanche in caso di morte, a meno che non si trattasse di parente stretto e, comunque, al massimo per due giorni.
Ho visto un carro funebre sulla tangenziale stamattina. Pensavo allo sgomento dei parenti rimasti in città, provati dal caldo e dal dolore; oppure dal fastidio perché costretti a rientrare dalle ferie o, peggio, a rinunciarci; o ancora dal senso di liberazione per sé e per il caro estinto, magari afflitti entrambi da lunga e inutile degenza.
Siamo strani noi occidentali, ma la stranezza la sappiamo nascondere bene, eccetto in caso di morte. Non riusciamo proprio a rapportarci con la separazione definitiva, con il ‘per sempre’ che non sia un sì davanti a un altare.
Il dolore ci fa fare cose strane. Ci sono alcuni che addirittura vengono presi da attacchi isterici e ridono fino alle lacrime, alcuni che cercano di farsene una ragione, altri ancora che crollano e piangono per giorni, altri che tacciono o che diventano cattivi e, se lo sono già, più cattivi. Nessuna serenità, nessuna dolcezza, nessun senso di pace.
Quello che ci frega, a noi occidentali, è il pensiero dell’assenza. Non pensiamo a chi se ne va, alle cose che ha lasciato in sospeso, a ciò che non ha fatto in tempo a vedere, a dire o a vivere. No. Noi pensiamo a quanto ci mancherà, a quello che non gli abbiamo mai detto (stronzi che siamo), a ciò che potevamo regalare e non lo abbiamo fatto. Pensiamo a noi stessi, da bravi occidentali egoisti. Se poi si tratta di qualcuno avanti con l’età, scatta immediato il mantra “in fondo la sua vita l’ha vissuta“. Ma cosa ne sappiamo noi della sua vita?! Di ciò cha aveva dentro e dei suoi sogni più segreti, di come si sentiva e di quello che avrebbe ancora desiderato…
Tanto tempo fa ho avuto il privilegio di assistere a una morte “accompagnata”. Si trattava di mia nonna. Ero sola in casa con lei, che oramai non era più cosciente, e con la signora che l’assisteva (ma in realtà assisteva tutti noi). Si chiamava Rohini ed era dello Sri Lanka. Un viso bellissimo su un corpo imponente e un sorriso capace di infondere pace anche in un tarantolato.
Io studiavo per un esame, cercando di non pensare a nient’altro che non fossero travi e strutture, e sentivo un canto sommesso venire dalla stanza di mia nonna. Mi affacciai in punta di piedi e vidi Rohini che teneva mia nonna tra le braccia, cullandola come fosse una bimba. Mi fece un cenno con gli occhi in modo che non parlassi e, sorridendo, mi fece capire che potevo tornare a studiare…
Passarono ore in cui quel canto dissolse l’aria mortale che pervadeva la casa. Persi la cognizione del tempo. Poi, mi venne a chiamare. Mi disse che era arrivato il momento di salutarla. Lo feci e lei smise di respirare.
Mi disse che ognuno di noi ha il diritto di morire sereno, che l’ultima cosa che aveva sentito era il suo canto dolce e il tocco delle mie mani e che non aveva sofferto.
Non ho mai dimenticato quella dolcezza e la sua capacità di lasciar andare una persona che aveva amato tanto. Eppure, pensavo, i cattolici che credono all’aldilà dovrebbero essere altrettanto sereni quando qualcuno muore e invece tra veglie, funerali, singhiozzi e preghiere, della morte si amplifica solo la dimensione dell’assenza.
Non so, ma io vorrei andarmene tra le braccia di qualcuno che mi culla cantando. Qualcuno che mi faccia esistere in pace anche negli ultimi attimi della mia vita. Sono nata a luglio, con un mese di anticipo, e forse morire ad agosto pareggerebbe i conti.
Non ancora però. Il tempo di vedere posti lontani e leggere autori sconosciuti. Il tempo di capire come trasmettere tutta la poesia che ho visto, sentito e provato. Il tempo di regalare carezze e sorrisi. Il tempo di fare ancora una volta pace con me stessa.
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